Nella nostra società dagli spiccati caratteri competitivi, intransigentemente votati al successo a tutti i costi, una società di soli numeri uno; molto spesso si sente nominare il carattere “aggressivo” delle sue dinamiche.
Oggi e per noi, l’aggressività è sinonimo di violenza, eppure non è sempre stato così, anzi. A ben vedere, nemmeno in termini di fenomeno, si tratta della medesima cosa.
Lasciamo parlare la radice della parola: aggredire è andare verso qualcosa o qualcuno, tendere, appetire. Indica quindi una capacità, un movimento di energia che sposta dal bisogno al suo soddisfacimento.
Seguendo il metodo dell’archeologia del sapere (vedi Foucault), l’evoluzione del significato, racconta a sua volta l’evoluzione del tempo in cui si pone.
Come mai proprio in una società violenta, l’aggressività è vista sotto una luce negativa? E non potrebbe essere questo fatto, precondizione dello stesso valore negativo?
Viene in mente l’accusa che Nietzsche fa al cristianesimo – componente importantissima della nostra cultura – nell’opera “L’anticristo”: la condanna della forza vitale, sotto forma di istinti e di vigore, ne causa la loro degenerazione.
E se invece questa facoltà umana – l’andare verso, appunto – fosse spogliata dal carico del giudizio morale e riscoperta alla luce della sua fondamentale funzione umana? Certo da gestire, ma in altro modo? La salveremmo dalla degenerazione?